22 mesi

22 mesi:
chi mai li conterebbe
se non un genitore?
(né cifra tonda
né tappa significativa
dello sviluppo)

22 mesi
che ti ascolto, ti tocco
ed è cambiato
il mio sguardo:
adesso noto ogni cane
e mi entusiasmo
gioiosa
al passare dei camion.
Cacco!

Sei diventato timido
non lo eri
lo sei: quindi?
Distogli lo sguardo,
ti nascondi,
afferri i giochi
desiderati, solo
con la mia mano.

Sento crescere
ombre dense
dentro:
il passato che dice
del futuro, ma questo
è un pezzo
tutto mio.

Una cosa invece
vorrei dirti
nella timidezza
di questi due anni
non ancora.

Non si vive di lato
e neppure prima
neppure dopo
o, meglio, sì
però meno
e si perde tanto
a non prendere
il volo
una mano tesa.

È possibile, quindi

È possibile, quindi,
udire
le sirene delle ambulanze
e insieme
il tuo trillo gioioso
nel gioco del cucù.

È possibile, quindi,
non dire
la paura
che prima o poi
né il sollievo,
inaspettato,
quando infine.

È possibile, quindi,
lasciare la presa
smettere ogni sforzo
e lasciarsi accadere.

 

 

Straniera tu, straniera io

Milano, San Cristoforo, stazione del treno.

Una giovane donna in chador nero solleva un passeggino con bimbo annesso, e scende di corsa le scale del sottopassaggio. Alla rampa successiva, da percorrere in salita, riesco ad offrirle il mio aiuto.
Il passeggino è pesante, mi chiedo come abbia fatto a trasportarlo da sola. Arrivate in cima le sorrido, cercando di mettere nel sorriso tante cose: come il fatto che, se vuole, possiamo parlare, abitiamo nello stesso quartiere, mi piacerebbe conoscerla.
Lei però fissa dritto davanti a sé, non incrocio il suo sguardo. Bisbiglia un “grazie” in tutta fretta e si mette a camminare spingendo il passeggino.
La osservo mentre si sposta di qualche metro sulla banchina, parlando al cellulare. Poco dopo la raggiunge un uomo, più vecchio di lei, che si mette al suo fianco e prende in braccio il bambino.

Sento un dispiacere spigoloso crescermi dentro, che si mescola a rabbia, e inizio a vedere cose che, in quella scena, non ci sono: vedo una donna di vent’anni venuta dall’Egitto dopo aver sposato un uomo che non conosce, originario del suo stesso villaggio. Vedo una donna a cui è stato detto di non dare confidenza alle italiane, perché sono senza religione, senza morale: escono da sole come prostitute, scoprono il corpo, si truccano. Vedo una donna venuta a Milano per fare figli e stare chiusa dentro al piccolo mondo degli egiziani immigrati qui.

Di colpo mi trovo a pensare che si parla tanto della paura degli stranieri, ma “straniero” è una categoria relazionale: se tu sei straniera per me, anch’io lo sono per te.
La paura è probabilmente reciproca.
Penso a come sia facile piantare un seme di guerra in una mente, un cuore umano. Basta dirsi: “Noi contro tutti”, e permettere che il noi diventi sempre più piccolo, sempre più stretto… fino a stare dentro ai confini dell’io.

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Foto: Lisbona 2017

Violenza, a partire da me

Ieri era la giornata contro la violenza sulle donne.
Inutile dire che lo è anche oggi. O per lo meno dovrebbe esserlo.
Oggi, domani, dopodomani, dopo dopodomani.
Tante parole sono state spese quindi forse non serve aggiungerne altre.
Però una cosa la vorrei dire: la violenza, in generale, e quella contro le donne, in particolare, ci tocca da vicino. Non riguarda solo gli altri. Non sono “mostri” i mariti, i compagni che picchiano, umiliano e uccidono. Non sono “stupide” o, peggio, “corresponsabili”, le mogli, le compagne che subiscono. E magari giustificano, si sentono in colpa, e poi però odiano, hanno paura, si contraddicono.
Sono persone “normali”. Può capitare anche a noi, e purtroppo capita.
E forse quando cominceremo a parlarne di più, a partire dalle esperienze concrete, a partire da noi, forse qualcosa, forse, si spera.

Quindi comincio, parto da me: ho avuto paura, diverse volte nella mia vita.
Ho avuto paura una volta sul pullman, a Torino, di sera. Un uomo si è seduto dietro di me e ha cominciato a parlarmi nell’orecchio. C’era pochissima gente. Mi sono alzata, ho cambiato posto, ero terrorizzata. DSC_0095Ho chiesto a mia mamma di venirmi a prendere alla fermata. E poi però non sono riuscita a non chiedermi: “Come mai si è seduto proprio dietro di me? Magari ero vestita in modo sbagliato? Sono stata imprudente?”.

Ho avuto paura tante volte a Parigi, l’anno scorso. Quando tornavo a casa in bici (o in metro) e dovevo passare davanti a un gruppo di uomini che puntualmente stazionava davanti a un piccolo supermarket aperto fino a tardi, proprio sotto casa. A volte mi squadravano. A volte (loro o altri uomini incontrati lungo il cammino) mi dicevano qualcosa, tipo: “ça va?”; “vous allez où?”. A me dava molto fastidio, e se questi commenti arrivavano di giorno magari rispondevo e mi arrabbiavo; però di sera, di notte, stavo zitta, subivo, avevo paura.
Non ho indossato gonne per un anno, per tutto il tempo in cui sono stata a Parigi. In particolare la sera, facevo molta attenzione a non indossare niente che potesse dare nell’occhio. Sapevo che era un comportamento stupido, che vestirmi con giacconi larghi e scarpe da ginnastica non mi avrebbe protetta né dagli sguardi né dai commenti e che, per converso, se avessi indossato una gonna e avessi ricevuto commenti non sarebbe stata colpa mia; eppure mi sono comportata così. Desideravo rendermi invisibile, speravo di non essere guardata da nessuno, volevo solo che mi lasciassero in pace.

Credo che anche questa sia violenza.

Arianna

Foto: Nadia Lambiase

Il coraggio di non

IMG_3526Se non me la sento, se ho paura, forse non per forza, forse non è detto.
Dico solo non è detto. Che sempre e naturalmente ma anche positivamente e fiduciosamente possa e debba andare oltre, buttarmi, non farmi condizionare e forse condizionata scegliere quel che pare più accettato socialmente: il coraggio inteso come “io vado”, “andiamo”. Nonostante me, nonostante te, nonostante tutto il resto attorno, nonostante noi, come stiamo, pensando tanto vale, in fondo o adesso o mai più e mai dire mai.
Dico solo a volte, può essere, in ogni caso non escludendo… chissà, forse è coraggio anche quello.

Il coraggio di non.

Arianna

Foto: settembre 2014

Il poeta, alla fine, è un vile

Il poeta alla fine è un vile,
‘che gli vien l’ispirazione
di scrivere ciò che è,
‘che gli arriva l’emozione nuda
che gli basterebbe ritrarla,
semplice semplice, sfrondarla delle parole
di troppo, e invece, pauroso
di mostrarsi schietto come la sofferenza,
di dire ciò che prova, su due piedi,
si nasconde tra mille artifici;
nasconde se stesso tra i giunchi
di metafore e paroloni,
prende la poesia e la contorce,
la ritorce, la modifica, la complica
che gli altri non lo capiscano,
non sia mai che lo comprendano,
lontano dal rischio di svelarsi l’anima,
e rimane così difeso e protetto
dietro la paura e il distacco,
con l’aria da colto, superiore,
una bella figura decisamente da artista.

Giacomo

Avarizia

E’ non averne mai abbastanza: di soldi, case, automobili, riconoscimenti, conferme, attenzioni, complimenti.

E’ pensare di avere qualcosa, da perdere.

E’ la paura di perdere quel che si pensa di avere, di perdere quel che si vorrebbe e forse già, oppure no, non ancora.

Forse, anzitutto, è la paura.

Arianna

Foto: Eva Munter

Easy, sia quel che sia

Ho sempre saputo dentro di me che essere contemporaneamente in due posti diversi è letteralmente impossibile. Sempre saputo che tutto non si riesce a fare, che occorre fare delle scelte, prendere delle direzioni, perché da tutte le parti non si può andare. Ovvio no? Come 1+1=2! Ho arrogantemente sempre criticato quelli persi in un intrico di strade incapaci di scegliere quale prendere.

E ora…

Ironia della sorte…

Il 2011 mi ha visto protagonista della parte opposta. Sarà il Karma (eh dagliela con ‘sto Karma!) ma mi son ritrovato a capire come per magia che è possibilissimo ritrovarsi ad un bivio, fermi come coglioni (un anno fa  almeno mi sarei dato del tale). Sarà il Karma ma ho  capito come per magia che è possibilissimo aver preso una strada, e dopo pochi passi già domandarsi se sia quella giusta.

(Qui si potrebbe aprire una parentesi – come ho appunto fatto –  per chiedersi se veramente esiste una scelta giusta e una sbagliata, o se qualsiasi scelta della vita sia semplicemente una scelta, né giusta né sbagliata, ma solo un dato di fatto di come vanno le cose.  Beh, richiudo la parentesi subito) – ecco fatto –  perché ne potremmo discutere troppo a lungo e non vorrei  tediarvi oltre andando off topic.

–  ora riprendo il discorso, abbiate pazienza –

Questo mondo è talmente grande vasto e vario che ti invita ovunque, ti corteggia, ti conquista. Il mondo, quello che vedi, ti ammalia e poi si fa desiderare, si svela poco a poco e non ti si concede mai del tutto (il bastardo), mai ti si dona come lo avevi desiderato, come lo avevi infantilmente immaginato, e ostinato (il mondo) ti obbliga a rinunciare a qualcosa ogni giorno per averne un’altra.

– sarà veramente così? vi convince?-

Può capitare che si viva spensierati ma che lentamente con gli anni ci si arrugginisca, ci si “inquini” per così dire e si perda lentamente quello slancio infantile ma così puro e spontaneo che sembrerebbe il segreto per vivere meglio, senza paura del futuro e delle conseguenze delle nostre scelte. Può capitare che si cominci a dover schivare i pensieri amari, quelli sciocchi e inutili ma che bussano saltuariamente da autentici rompicoglioni tra i pochi neuroni rimasti che si sono salvati da una gioventù trascorsa probabilmente un po’ troppo allegra (succede). Può capitare che questi si presentino al pensatoio, senza essere invitati, pronti a farti sentire il peso di una scelta, a riproporti la possibilità di ritornare indietro, a valutare nuovamente le conseguenze, le possibilità a cui stai rinunciando. Si ripresentano nella tua mente pronti a farti vivere un poco nel passato, a toglierti energie dal presente. E ti invecchiano con le loro domande:”E’ la tua strada questa? Avrai fatto bene a fare così? Hai deciso il meglio per te?”. Così schivare questi pensieri quando si presentano è come schivare un pugno tirato da un angolo cieco. Ti beccano sempre, ma puoi almeno farci il callo e limitare i danni appena li sai riconoscere.

-sarà veramente così? ve lo richiedo…-

Ecco, quello è il momento in cui si diventa adulti, istante in cui si perde la spontaneità, lo slancio folle di intraprendere una scelta senza paura delle conseguenze. Si è vissuto abbastanza per conoscere infatti la paura di perdere qualcosa, di soffrire.

Mi piace pensare però, in via ottimistica, che gli adulti non siano quelli che si fermano a questo punto, ma che vanno ancora più avanti, che la sconfiggono ‘sta paura di merda e che sereni vivono ogni giorno, easy, sia quel che sia.

Giacomo

Criceti

Mi dici. È che fai paura.
Mi dici. È il tuo entusiasmo.
Perché? Non sai risposta.
Mi dici. È che la mia porta: si apre solo dall’interno.
Mi dico. La mia porta è socchiusa, hai il coraggio?
Mi dico. L’entusiasmo, ora non è che un difetto.
Perché? Non sai risposte.
E hai soltanto citofonato.

Gianmarco